Uomini

La morte del Generale Pezzi sul fronte Russo

 

Nel corso della Seconda guerra mondiale l’aviazione fornisce un essenziale valore aggiunto alla logistica. Rilevanti quantità di materiali ed uomini vengono movimentati da tutti i principali belligeranti per le differenti esigenze dei vastissimi e mutevoli fronti operativi. Una storia sovente poco conosciuta che si limita a singole circostanze.

In Italia i Servizi Aerei Speciali della Regia Aeronautica nei 38 mesi di guerra forniscono un fondamentale contributo, con voli di altissimo livello professionale che confermano le qualità dei piloti che le portano a termine.

Sul fronte russo, poi, le esigenze strategiche si coniugano a quelle tattiche, con la necessità di rifornire reparti accerchiati, talvolta in condizioni drammatiche.

Nel corso di una di queste missioni eseguite con velivoli non certo previsti per l’utilizzo in condizioni climatiche estreme come quelle che si registrano in quel fronte operativo, scompare il Generale Enrico Pezzi, comandante il Comando Aviazione Fronte Orientale.

Un grande giornalista, Lamberti Sorrentino ci trasmette un vivido racconto dell’episodio. Tutta la documentazione fotografica è quella del sito internet dell’Archivio Centrale dello Stato. (g)


 

Savoia Marchetti S.81 Pipistrello Fronte Russo Generale Enrico Pezzi

 


Il generale Pezzi era al fronte russo quasi dal principio della campagna: era uno dei veterani. Fece tutto l'inverno 1942 col Csir, alle dipendenze del generale Messe — che qui ve­dete ritratto a destra — attualmente Comandante d'Armata. A Putilofca, poco distante da Stalino, il generale Pezzi diede alla nostra aeronautica in Russia un'organizzazione efficace, soprattutto per officine e riparazioni di velivoli colpiti.

 

 

(Dal nostro inviato speciale)

FRONTE RUSSO, marzo.

 

Sai, mi disse: « il generale è scomparso ». (G. P., era venuto di sopra, dopo avermi tele­fonato dalla portineria dell'Athé­née Palace: certo una cosa gente).

 

« Scusa se mi trovi, in questo arnese » — rispondo per ripren­dermi; e rimasi a mezza strada tra il letto e il bagno. Tutti pos­sono cadere in guerra, anche i migliori, soprattutto loro, così di­cono; ma il generale Pezzi, no. Era un fenomeno di vitalità. Pez­zi caduto? Rimanevo a pensarci su, senza ricordarmi di G. P. che mi guardava ammutolito: Pezzi caduto? Sono tutte storie, pen­sai, e sorrisi. È vivo, e da qual­che parte, a tempo e a luogo, salterà fuori. Anche G. P. la pen­sava così. Certi uomini non pos­ano morire, Sono due anni che Balbo se ne è andato, ma chi crede al fatto che non tornerà più? E Sandro Sandri? Neanche Barzini junior, che lo vide finire, ci crede, alla sua morte. Sarà in Cina, come dissi altra volta, a camminarsene per la piana, vesti­to di seta, a fare il mandarino, o di lana, a fare il generale. De­ve esser così, e non c'è niente da fare. Sarà. per questo che non verrà mai più quaggiù tra di noi.

 

G. P. mi da notizie. Mi dice: « Sai che aveva la smania di fare l'azione personale, dare l'esempio, volare sui russi. Era gio­vane, poco più di quarant'anni, ma era anche generale; e que­sto gli avrebbe consentito, l'obbligava, anzi, in un certo modo, a rimanersene al comando ».

Me lo ricordo. Pezzi, come se fosse qui, in albergo, a far quattro chiacchiere con me. Comandava l'aeronautica italiana al fronte russo. Ci sapeva farei come pi­lota, come capo, come organiz­zatore. Qualche mese fa, infatti, allorché i sovietici cominciarono a premere contro le nostre posi­zioni sul Don, egli istituisce un regolare trasporto, aereo dei feriti oltre che di viveri, benzina e munizioni, dalle linee al centro ospedaliero di Voroscilovgrad. Qui, alcuni celebri medici nostri, quasi fossero stati nelle cliniche di Roma o di Milano, recuperavano tutta quella carne lesionata, la rimettevano in sesto, restitui­vano loro la vita. Questo, men­tre si faceva la guerra, torva, tra la neve e il ghiaccio, tra la spinta di armate che sì cercavano e si fungevano in un inferno senza fine.

 

Su tutto il fronte russo — anche tra il nemico, probabil­mente — Si parlò della muta col­lera delle squadriglie-trasporto,una gara di rischio. Ognuno fa­ceva del suo meglio. Ogni salto nel vuoto voleva dire venti ita­liani sottratti alla morte. Il generale Pezzi era con loro, con ì piloti; oltre il limite, ognuno si sentiva sotto l'imperio dei suoi occhi. Pezzi volava in ogni spe­dizione, carico di professori uni­versitari, uomini di studio, di la­boratorio, di biblioteca; e gente che in tutta la loro vita non aveva udito un solo colpo di pi­stola, oggi volavano alti in un cielo straziato di nero e di grigio, un cielo funesto di scoppi, di ri­verberi e bagliori. Da allora, in linea, si incominciò a parlare se­riamente dei trasporti. Fino al­le vicende di quei giorni, i cacciatori e bombardieri si erano as­sunti il ruolo dei protagonisti. I piloti dei trasporti passavano per semi-imboscati. Malgrado la loro continua interdipendenza con le linee avanzate, andavano e venivano da Bucarest, vivevano, cioè, anche in città. Infatti possede­vano saponette profumate, liquo­ri, radio portatili, romanzi, prov­viste di sigarette. Erano i signo­ri della situazione, e, con la retrovia sicura, non correvano nes­sun rischio oltre quello, inevi­tabile, del volo.

 

Ma, durante il salvataggio dei feriti — un terzo dei quali erano tedeschi — i trasporti ebbero le prime gragnuole a bordo. Un du­ro battesimo, morti, feriti. Ci si orientò meglio nei confronti di questa specialità dell'aviazione. Imboscati un corno! Il tale in tre giorni aveva dormito, si e no, tre ore. Un altro, era rimasto a terra per far posto a un ferito grave, e in un attacco notturno aveva combattuto con le fante­rie. Un terzo era riuscito a com­piere quattro voli utili in una sola giornata. Per ciò che riguar­da la pubblica opinione nei ri­guardi degli ufficiali dei traspor­ti, posso dire che, a mensa, si faceva loro subito posto, e il pri­mo bicchiere di vino fu per lo­ro. Una tradizione di settimane, che rimarrà.

 

Savoia Marchetti S.81 Pipistrello Fronte Russo Generale Enrico PezziSavoia Marchetti S.81 Pipistrello Fronte Russo Generale Enrico Pezzi 

 

« Parto domattina. Potrei da­re un posto anche a te. Vie­ni? » , G. P. era allora addetto aeronautico a Bucarest. Ci co­nosciamo dalla Spagna, e da quel tempo diabolico siamo amici, (La Spagna, come tutti i veri dram­mi, cementò amicizie e inimici­zie durature). « Ti farò dare a bordo il posto del mio segreta­rio » — disse. Ci avvicinammo al balcone. Nevicava placidamente, e la città ostentava un profondo velo bianco sfumato nel grigio imprecisato dell'orizzonte. Lontano, molto lontano, in una certa direzione, c'era la guerra. Era inutile il non pensarci. Dal­la periferia, sentivamo battere il cuore del centro, clamori della grossa artiglieria, il fremito dei cingoli sulla neve. Per noi che c'eravamo stati, la fronte appa­riva come una tragica caldaia do­ve milioni di uomini fermenta­vano in un gigantesco odio co­mune. La piazza era aperta e stucchevole nel suo paesaggio di maniera. Nessun rumore.

 

Chiesi: « Arriveremo con que­sto tempo? ».

« Appunto » rispose « c'è una occasione unica. Un "ottantuno" che parte domani e deve raggiun­gere le linee. Se nevica ancora per qualche giorno sarà impossi­bile lasciare il campo. Partiamo domani, alle otto ».

 

L'offensiva sovietica aveva pre­so dimensioni mai viste, e alcune località del nostro schieramento erano state sgomberate. Parve proprio di udire, nei nostri o­recchi infreddoliti, le voci italia­ne dei difensori, visi noti, le ac­centuazioni rapide dei dialetti. Era casa nostra, e sentimmo en­trambi dolore, una sorpresa stu­pita, irrimediabile. E poi: Pezzi era caduto; ma che diavolo ac­cade?

Mi disse G. P. sulla soglia, pri­ma di andarsene: « La notizia della scomparsa è riservata; se si sapesse, sarebbero i russi a ricer­carlo. Stiamo sondando il terre­no, rastrellandolo addirittura, con gli aerei, seguendo la sua stessa rotta. Ma finora  neanche il relitto dell'apparecchio abbiamo trovato. Non parlarne, qui le spie prosperano ».

Non gli sorrisi neppure. Che Pezzi fosse proprio vivo?

 

 Savoia Marchetti S.81 Pipistrello Fronte Russo Generale Enrico Pezzi

 

Eravamo a cento chilometri ol­tre Odessa, quando cademmo in un banco di nebbia. Visibilità zero. Il pilota si buttò avanti. Nuotavamo in una illimitata pa­rentesi di acqua e neve. A un tratto si produsse, nella nebbia, un concitato brivido. G. P. mi indicò le ali: si coprivano di ghiaccio, di incrostazioni stalag­mitiche, belle a vedersi. Il pilo­ta capriolo all'indietro, svettò dì nuovo all'aria libera. I volti si distesero. La morte aveva tenta­to, ma non era riuscita. Le for­mazioni di ghiaccio sono morta­li, e nella navigazione invernale in Russia rappresentano un pe­ricolo quotidiano. Bastano pochi secondi, a volte, per rivestire le ali d'una scorza ghiacciata spessa venti centimetri. L'aeroplano cade come una pietra, le eliche e i timoni non hanno più senso. Si va in frantumi prima di farsi il segno della croce.

 

Dormimmo a Odessa. Anche qui, la città si stendeva, silen­ziosa, nella neve. La mattina, trovò le strade, il porto, le case bruciacchiate, nella tempesta. 20 gradi sotto zero. I piloti attende­vano nelle baracche del campo, con gli occhi fissi nei vetri sme­rigliati dal gelo. All'una si pro­dussero di colpo le condizioni favorevoli per il volo. Arrivammo a Saporosce, e avevamo un'ora di vantaggio sulla notte. L'appa­recchio perse quota, librò come una farfalla morente nel freddo.

A mensa si parlò del generale.

« Pezzi non era tipo da mori­re » — urlò inasprito un capita­no con la zazzera, un uomo misti­co, sembrava. Il comandante del campo, rimproverò dolcemente: « Perché perdere la speranza? »

Il medico stava accanto alla ra­dio, ad ascoltare i russi « Non lo hanno trovato, non lo sanno ». Allora il capitano con la zazzera, faceva con il braccio un gesto o­sceno, verso oriente, una offesa muta e desolata. Gli altri rideva­no, ammiccavano. Ma la pena era rappresa perfino negli occhi degli inservienti che servivano una povera zuppa di carote. Si giuo­cò a poker e a baccarat. Ma mancavano i sottintesi lieti, me­no ancora del solito incontro not­turno, a carte, attorno alle cas­sette munizioni, in trincea. Fer­mentava una collera sorda, inu­tile. Dopo il medico, un biondi­no, accompagnò G. P. e me, nel­la stanza riserbataci, due bran­de con vere lenzuola. Mi disse, sulla soglia: « Che lusso, che riguardi! L'hai indovinata a ve­nire con l'addetto aeronautico. eh! ». Forse m'invidiava, il me­dico, ma rise egualmente, sotto­voce, come se avesse paura di disturbare.

 

 Savoia Marchetti S.81 Pipistrello Fronte Russo Generale Enrico Pezzi

 

Quaranta minuti di volo ci se­paravano da Voroscilovgrad, e per compierli due interi giorni ab­biamo dovuto attendere, con me­lanconica pazienza. Nevicava sem­pre, e un vento folto, lugubre, sollevava larghi strati bianchi, gonfiandoli come dirigibili; dopo le inutili attese in mezzo al cam­po, ci ritrovavamo alla mensa, venti persone e quattro tavoli; senza liquori. Giuocavamo con piccole carte da bambini, unte. Ma non era facile ottenerle, il proprietario si opponeva, diceva che si sciupavano, bisognava far lunghe diatribe con la partecipa­zione di tutti i presenti. Ne era geloso, il proprietario, come di una donna. Mangiavamo a turni. Quelli del secondo, aspettavano in piedi, guardando cupamente i nostri piatti. A nostra volta, pren­devamo il caffè in piedi, mentre loro mangiavano, avidi, quasi a vendicarsi dell' attesa. Con un gruppo di ufficiali giunti da Voroscilovgrad, avevamo impiantato un tavolo di scopone: Erano al­lievi di Pezzi, acerrimo scoponista, conoscitore di tutti i bravi giocatori della zona, a rotazione invitati alla sua mensa. Partite ricche di urti e polemiche: gli insulti volavano come coltelli, fi­schiavano. « Non mi chiamare schiappa » propose un tenente, e aggiunse, piano: « Il generale mi chiamava così ».

« Speranze? », chiesi.

Egli disse: « Tutti vogliamo a­verne, ma... ».

Stette un po' soprappensiero, meditava: « Da ieri sono cessa­te le ricerche. Si è compiuto. un ultimo tentativo: abbiamo man­dato nelle linee russe un grup­po di ragazze che lo conoscevano, vestite da partigiane. Qualcuna tornerà indietro, e forse avremo notizie. Domandò, nell' improvviso silenzio, un sottotenente « A che distanza della linea è ca­duto? ». Era pivello, e non sape­va raccapezzarsi in quella ibrida confusione organica che fu il fron­te russo invernale del 1943.

Disse il tenente: « Non c'è li­nea, non ne esistono più, in que­sta campagna. I russi avanzano, noi resistiamo; essi ci oltrepassa­no, e noi siamo accerchiati; poi, altre truppe, nostre o tedesche, accerchiano i russi. Allora il pre­sidio accerchiato si sgancia, cioè si sganciano i superstiti, e si pro­va a raggiungere le retrovie. Le strade sono di nessuno, nostre e loro, secondo. In questa babele, girano i carri armati, volano gli apparecchi, si perdono le fante­rie. E' una linea fluida come l'ac­qua. Cambia forma, e sembra sab­bia sotto il ghibli ».

Un capitano di fanteria imba­cuccato annuiva, timido, e disse a mo’ di scusa: « Chi non c'è stato non può capire, né giudicare! ».

 

 Savoia Marchetti S.81 Pipistrello Fronte Russo Generale Enrico Pezzi

 

A Voroscilovgrad arrivammo all’imbrunire. Sul volto degli avieri che si fecero attorno all'apparec­chio, nel crepuscolo viola, sui campo tirato a lucido dal vento, c'erano segni duri. Prima linea. Subito qualcosa ci avvertì che la vita era divenuta preziosa. For­malmente, niente era mutato, ma le strette di mano sono più inten­se, le parole più scarne, i toni della voce, misurati. Sensazioni inesprimibili. Pare quasi che l'uo­mo si metta a punto, come un motore, per dare il rendimento massimo con il minimo dispendio di energia. Un clima morale esa­sperato in un ancora irrealizzabile approssimarsi dì motivi e modi da far paura.

Quando entrammo nella vecchia mensa dei cacciatori, fu uno dei momenti più belli dei nostro viag­giare attraverso i fronti. Per la strada ci avevan detto che la mi­naccia era lì, a due passi, e che il generale, prima di scomparire, aveva ordinato di preparare le va­ligie. Molto materiale era, così, andato tempestivamente indietro, molti erano partiti. L'arrivo di un addetto aeronautico e di un giornalista, a questo punto, parve un buon augurio. Ragazzi che tre mesi prima si erano appena pre­sentati, ci vennero incontro con le braccia aperte; una stretta sana, da uomo, che dava senso alla vita.

« Non trovi il generale » — dis­se C., un cacciatore napoletano che sapeva deformare al pianoforte note canzoni inglesi.

« Già, non trovi il generale » — dissero gli altri.

Spiegai: « Sono venuto per lui. Se ritorna, tanto meglio, altri­menti scrivo un pezzo come si de­ve » — dissi poco dopo.

Tacquero. Qualcuno mi voltò le spalle, e il silenzio divenne acre. Offrii una sigaretta a C. Questi ri­mase con le mani in tasca, severo, annoiato di dover ripetere una co­sa elementare: « Perdi il tuo tem­po, tornerà ». Aveva parlato per tutti, e l'atmosfera divenne più leggera.

Precisai: « Ma nel dubbio... ». Fecero in coro: « Che dubbi e ca­voli. Ti pare uomo da finire in mano ai russi? », e nella loro in­terrogazione c'era un immenso di­sprezzo, ma anche un lontano  ti­more che insisteva, rabbioso, a venir fuori. Qualcuno rise, un al­tro sputò nella stufa, tutti   insie­me mi guardarono con canzonato­rio compatimento. Si facevano co­raggio alle mie spalle, facendo le fusa come ragazzini desolati ma sicuri dell'invincibilità di Pezzi, una specie di magnifico padre.

 

 Savoia Marchetti S.81 Pipistrello Fronte Russo Generale Enrico Pezzi

 

Nel Comando c'era una porta con un cartello: « Il Generale Co­mandante ». Era chiusa: Spin­gemmo la porta contigua: « Il Capo di Stato Maggiore ». Un te­nente colonnello era alle prese con due telefoni. In uno diceva piano, come un consiglio sussurr­ato a un amico: « Aspetta, ti prego, aspetta un momento; nell’altro gridava, tentando dì vincere la pessima conduzione: « Non capisco... come? ... sì… colpito duramente... A questo punto, alzò gli occhi: e quasi con­tinuando una conversazione già iniziata: « Ventun colpi di can­noncino a bordo ». Riprese nel primo telefono: « È atterrato fuori campo, ma ha sganciato su Cercovo. Ventun colpi di cannon­cino, al ritorno, l'armiere e l'erreti morti, gli altri incolumi. Ma hanno centrato Cercovo, stanotte i nostri potranno sparare ». Par­lava, con gli occhi fissi su G. P., ma solamente in ultimo lo rico­nobbe:

« Ma sei tu, scusami » — e si alzò per abbracciarlo. Disse, lentamente: « Da due ore tengo in allarme il fronte per sapere che cosa è accaduto di G. Dei tre ap­parecchi partiti per Cervovo uno non dava notizie dalle quattro, e i tedeschi avevano visto a quell'o­ra cadere un aeroplano. È stato difficile raggiungerlo, e nella pia­nura è tutto buio. Per fortuna, il velivolo non è danneggiato gra­vemente, le parti vitali sono in­columi. Aggiunse, con voce inco­lore: Ogni giorno perdiamo qual­che elemento, e le squadriglie tra­sporti son ridotte a ben poca cosa.

Eravamo seduti, e il tenente co­lonnello ordinò tre caffè. Beveva con la tazzina nella destra e   di­nanzi alla carta, illustrava Cerco­vo. Avevamo sentito quel nome, per la prima volta, a Saporosce, un nome russo qualsiasi. Ma in quell'istante, Cercovo prese un va­lore estremo, sentimmo all'improv­viso che questo nome era il pro­tagonista. Ogni parola del colon­nello cadeva densa di significato: « Qui, in questo punto, poco di­stante dalla ferrovia c'era un pic­cola campo di atterraggio », se­gnava, intanto, con il dito, sulla carta: « e qui giunsero i nostri, dopo una cruda resistenza in li­nea e una marcia lunghissima sotto il pungolo delle avanguardie russe, tra bufere di vento e ne­vischio e, Rise tra sé, un picco­lo riso secco; forse era un tic nervoso.

 

Annunciò: « Vi ricordate il pas­saggio della Beresina? Le oleo­grafie viste da bambini? Beh, sono appunto storie per bambini. Il popolo italiano non saprà forse mai che cosa è stato fatto al fron­te russo, nell'inverno 1943. Altro che inverno 1942! Allora si stava nelle case, si combatteva dalle case, con la stufa dentro e la mi­tragliatrice sulla soglia. Credeva­mo che fosse materialmente im­possibile combattere allo scoperto. Invece, i combattimenti in­corso si svolgono all'aperto, tutti all’aperto, e che eroismo o pagi­ne di storia; le parole, si sono sciupate: bisognerebbe trovare parole-natura, parole come san­gue, per raccontare certe cose ».

Aveva finito il caffè, noi tace­vamo. Tutti e tre sul divano a guardasti in faccia, il colonnello era assorto, nervoso, consumato, dalle rughe e dal pallore. Un vol­to giovane con tracce di una as­surda decrepitezza. Solamente gli occhi scuri erano vivi, lampeggiavano. Dissi: .« E così, che cosa avvenne? ».

« Non so che effetto potrebbe fare in Italia il tuo artico­lo. Non so nulla, sono qui da tanto tempo. Ma ti assicuro che il più estraneo diventerebbe par­tecipe, a udire quel che avviene a Cercovo in questi giorni. È a Cercovo che il generale e il pro­fessor Bocchetti tentarono, tre settimane fa, di ricompiere un miracolo. Settemila uomini, tra cui mille feriti. portati a braccia dai sani, sani per modo di dire. Nes­sun ferito fu mollato per la stra­da. Soltanto i morti, abbandona­vano, dopo averli interrati e salu­ati. Un ripiegamento a marce forzate, nella neve, tra i russi, bombardati da sopra, addentati dai carri d’assalto, e pure con i partigiani, probabilmente. Ma a Cercovo i nostri s'incontrarono con quattromila tedeschi e orga­nizzano la resistenza, e tengono testa ai russi ».

Continuò: « avevano le armi e le munizioni che gli uomini pos­sono portare addosso. Non li se­guiva nemmeno un mezzo, e quei pochi usciti integri dal cozzo iniziale esaurirono per strada il car­burante. Ma avevano una radio e c'informarono. Il generale par­tì con i due migliori piloti del C.A.F.O., un ottimo erreti, il maggiore Romano che faceva da osservatore, Bocchetti e altri.
Die­de notizia da Corcovo che aveva felicemente atterrato. Rimase due ore sul posto, ripartì, e chiese due volte il Q.D.M. Tutto era an­dato bene. Lo aspettavamo, al massimo entro mezz'ora, e poi sarebbe stato tra noi. Abbiamo aspettato e aspettiamo ancora ».

Disse amaro: « Quando cadde il buio cominciammo a temere un atterraggio di fortuna, con la radio inutilizzata, o l’erretì ferito. Accendemmo le luci sul campo, poi sì fece tardi. Se non tornerà in volo, verrà a piedi, concludem­mo; organizzammo le ricerche. All'alba partirono i caccia, una rete sul terreno, una tessitura fit­ta. Anche i tedeschi mandarono i loro apparecchi. Tutto il giorno, e f giorni seguenti, tra Cercovo e Voroscilovgrad su e giù, a bassa quota, a 120 metri. Niente ».

Lasciammo l'ufficio, e il tenen­te colonnello ci indicò la stanza del generale comandante; disse:

« Nessuno vi è entrato, da quel giorno ». Scendemmo dei gradini bui, e un carabiniere ci proiettò sul viso il cono giallognolo della sua lampada tascabile. Entram­mo nel freddo e nel vento. Udim­mo ancora la voce del Capo di Stato Maggiore: « Nemmeno nel­la sua abitazione privata è entra­to più nessuno, da allora ».

 

Pranzammo con i cacciatori. Si apre la radio: il bollettino. Poi tutti parlano e fumano. Vi è una allegria instintiva sui volti di que­sti ragazzi, e nulla può giungere a offuscarla del tutto. Mi doman­dano: « I cacciatori della steppa. quando esce? le foto, erano buo­ne? ». Mostro le istantanee ese­guite settimane prima, per un servizio che si intitolerà, appunto. I cacciatori della steppa. Spiegai loro le esigenze del mio girovagare attraverso i fronti., i ritardi nella pubblicazione per gli incre­dibili intoppi causati dalle spedi­zioni, dalla censura, e qualche volta da un'irresistibile voglia di non scrivere. Mi erano attorno, ad ascoltarmi, e ridevano. Si diver­tivano. Poi, quasi insieme, mi dissero: « Lascia stare i cacciatori e occupati dei trasporti ».

Uno dì essi mi precisa: « Cre­dimi, di noi si è scritto abba­stanza, mentre dei trasporti nes­suno ha parlato. Stanno facendo cose straordinarie ». Disse un altro « Ci danno dentro a tutto spiano ». Chiamarono Fera un giornalista, esitante, tempo fa, tra il corrispondente di guerra e il pilota, fino a che si è deciso per li pilota, nettamente, senza melanconie. Si fa vedere, e parla con accento leggermente salottiero: « Occupati dei; trasporti, e scrivi un bel servizio che lo me­ritano. Tutti ì giorni ne muoiono e tutti i giorni quelli che restano riprendono a volare ». Disse quasi per giustificarsi: « Il generale è scomparso appunto con i traspor­ti ». Parlò anche lui di Cercovo, degli uomini che vi sopravvivevano, accerchiati. I trasporti ave­vano continuato ad atterrarvi fi­no a qualche giorno prima; poi i russi strinsero I'assedio, occupa­rono il campo d'aviazione, accentuarono gli sbarramenti antiaerei. Adesso. Si fanno rapidi lanci con materiali protetti da paracadute.

 

Accanto a noi, cantavano stor­nelli sfottenti all'indirizzo. dell'u­no e dell'altro. Tirava fuori, un vento che rintronava. Ricordai a Fera che l'inviato di Tempo è so­prattutto un fotografo, e che per­ciò un servizio sui trasporti aerei avrei potuto farlo a condizione che mi avessero portato a bordo con loro, su Cercovo. Mi rispose: « Non venire ». Lo guardai sor­preso: che cos'era questa storna?

« È troppo rischioso », aggiunse. Gli misi la mano sulla spalla; ri­schi se ne corrono tanti, e li cor­rono tutti. Reagì subito, animatamente: « Sarebbe una sciocchezza », disse: « Si vola bassi per

trovare la rotta, sotto le nuvole, e chi vuoi prenderti non si affatica., Contro i nostri uccelloni possono sparare perfino con le rivol­telle. C'è poca probabilità di ritornare ».

Lo guardavo senza decidermi, ed egli rosicchiando un po' la er­re, e sorridendo, disse testualmen­te: « Credimi, io non sono affat­to sicuro di tornare, domani: tut­t'altro. Ma ho munizioni e medi­cinali da portare a undicimila uo­mini sospesi sulla morte. Non si discute, e anche se c'è una sola possibilità, si va tu, correre il medesimo rischio per quattro fotografie, sarebbe una fregnac­cia ». Mi diceva, insomma, a suo modo, che la vita umana è sacra, che non va data per piccoli me­stieri; meglio spenderla in combattimento, allora. Poi, dopo uno scopone scientifico, rientrammo nella stanza. Notammo, io e G. P., che più si va innanzi, al fronte, più la gente ride. I cacciatori ancora cantavano, improvvisando canzoncine a chiave, con motivi noti solamente a loro, riferimenti e intenzioni escluse al profano.

Partiremo domattina su una Ci­cogna, per il Comando dell'Ar­mata.

 

 Savoia Marchetti S.81 Pipistrello Fronte Russo Generale Enrico Pezzi

 

Ci levammo tardi, una furibon­da dormita piena di sogni. Calco­lavamo di essere a Starobiesc, al Comando, dopo un'ora di volo. Ma la Cicogna non partì. L'appa­recchio apparteneva al maggiore Von Boist, ufficiale di collegamen­to tra il Cafo e il Comando dell’arma aerea tedesca. Sette, otto avieri germanici vi lavorarono intorno per un paio d'ore, avvolti in nembi di nevischio. Si rinviò la partenza al giorno dopo: la luce moriva, e di notte è terribilmen­te pericoloso.

Andammo nell'ufficio del Capo di Stato maggiore e lo trovam­mo, come il giorno prima, curvo sui due telefoni, sul suo volto, co­me su quelli di altri due ufficiali, leggemmo chiari i segni del dramma. Ci fece un saluto sconsolato, e gridava, intanto: « Cercate, continuate a cercare. Fera aveva benzina per quattro ore, e non c'è più speranza, ormai, che sia in aria ».

La mattina erano partiti quattro apparecchi per Cercovo, ma solamente uno di essi aveva raggiunto l’obiettivo, sganciato i paracadute con le munizioni, rientrando poi alla base. Degli altri tre, fino a mezzogiorno, nessuna notizia. Verso quell’ora i tedeschi segnalarono che in velivolo aveva atterrato fuori campo, a cinquanta chilometri da Voroscilovgrad. La spedizione di soccorso trovò incolume soltanto. il primo pilota. Questi riferì che l'apparecchio navigava verso Cercovo, quando, su due strade che facevano da ri­ferimento, apparvero carri d'as­salto russi che iniziarono un fuoco incrociato contro la squadriglia. L'aereo di Fera, colpito, traballò e si perse tra le nubi.

Il terzo, continuò la rotta, mentre lui at­terrava fuori campo, tra gli scop­pi dei proiettili. Di Fera e dell'al­tro velivolo non si avevano notizie. Rammentai il suo viso e le Sue parole: « Ti assicuro non so se torno, tutt'altro ».

Squillò il telefono il tenente colonnello si contrasse. ognuno di noi credette in cuor suo che fosse un altro guaio; una mano nervosa si tese sul microfono: « Fera è atterrato a Starobiesc », gridò,

« con ventiquattro colpi a bordo, morti e feriti. Lui è incolume ». Da un'ora stavo a piangere tra me e me la sua scomparsa. alla sua de­cisione di scartarmi dovevo adesso di starmene al caldo e al sicuro. Ma il quarto apparecchio era spa­rito, inghiottito nel mistero. « Co­me quello del generale », disse, il tenente colonnello: « Su un per­corso breve, sopra un terreno com­pletamente piatto, uniforme. sen­za alcun ostacolo, con osservatori brevemente distanziati, un grosso apparecchio caduto si dovrebbe trovare ». Disse più tardi, a bassa voce: « Speriamo che i tedeschi facciano a tempo ! ». Si riferiva agli undicimila di Cenavo, e mi passò, lento, un brivido nella schiena.

 

 * * *

 

Lasciammo il fronte qualche gior­no dopo, con tre apparecchi del CSAS, guidati da tre assi dell'Ala Littoria, ognuno dei quali aveva al suo attivi) oltre due milioni di chilometri volati. Fu un viaggio avventuroso, e solamente il veli­volo dove avevamo preso posto raggiunse, a tappe, Odessa. Gli altri due ebbero incrostazioni di ghiaccio sulle ali e altre storie che non è il caso di narrare. Ma a Odessa ci aspettava una buona notizia: i tedeschi avevano rotto il cerchio che strangolava Cercovo, con una colonna di Panzer e di autocarri.

Il Console Generale Coppini si scaldava la schiena, con una die­cina di ufficiali, alla grande stufa di maiolica, in attesa che il pran­zo fosse pronto; e si parlava della gesta disperata, lassù, nella solitudine ventosa e ghiacciata. I salvati avevano ricostruito le al­terne fasi della lotta.

Si seppe, così, che Pezzi e Bocchetti ave­vano predisposto tra gli assediati un posto di pronto soccorso, e un rapido trasporto dei feriti, Erano i primissimi giorni dell'assedio, e le cose andavano quasi bene. Con­servavano tutti un grato ricor­do dei due eroi, annullatisi. sembra, nel tentativo.

C'era tra noi, quella sera, un capitano che aveva accompagnati; i superstiti di Cercovo verso le retrovie. Disse a me, chi mi pro­ponevo di cercarli e interrogarli: « Lascia stare. È gente che non ha voglia di parlare, e di raccontare, se ne frega dei giornalisti, è gente che ha bisogno di molta dolcezza. soprattutto molto oblio. In Italia non si avranno mai abba­stanza cure per essi, cura dei lori, cuori oltre che della loro carne. Essi hanno sopportato uno sforzo al di ogni possibilità umana. Ne sono infranti, e ne rimarranno ­infranti anche se brodi di gallina, torti d'uova e aria di mare restituiranno loro muscoli e colore. Dentro al loro cuore rimarrà un ­nodo segreto, un angolino di neve ­che nessun calore fisico o affettivo, scioglierà mai più! ».

Tacemmo tutti, stanchi.

LAMBERTI SORRENTINO

 

Tempo 25 marzo - 3 aprile 1943 n.200

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